Il grande dono della parola non diventi mai danno
- Creato Mercoledì, 20 Maggio 2015 09:00
- 20 Maggio 2015
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I sensi rappresentano uno dei doni più belli di Dio. Che vi è di più affascinante della vista, che permette di godere dell’immensità azzurra del mare, della maestà delle cime, del volto della persona amata? Che vi è di più ricreante dell’udito che consente di fare propria la bellezza impagabile della musica, del canto, della poesia? Che vi è di più dolce della parola, che permette di esprimere i sentimenti, le gioie, i dolori e di condividerli con chi si ama? Proviamo a rileggere la Bibbia, opera che è “il gesto inestinguibile dei secoli” (Ungaretti), e capiremo l’importanza dei sensi, da usare bene e per il bene. Se Gesù ha ridato la vista ai ciechi e la parola ai muti, vuol dire che credeva nel dono divino dei sensi. Non temeva che conducessero al male.
Non è possibile una gerarchia dei sensi. Tutti sono importanti e utili allo stesso modo. Certo, a vista, parola e udito si può assegnare un posto privilegiato. In particolare, l’utilità della parola è eminente. Il cieco può continuare a confortare e a sorreggere gli infelici con la sua parola, il derelitto può sempre dire che ogni pena ha un senso, l’insegnante può con la sua voce “imprimere un segno” nella mente e nel cuore degli allievi, l’amministratore può fornire indicazioni valide per una conduzione migliore, il politico può con la sua onestà - si spera che l’abbia - indicare saggi percorsi di salvezza, che riparino il popolo da assurdi disastri aerei e da spaventosi disastri di mare. Quanto bene possa fare poi la parola da parte del più umile dei confessori non ha bisogno di sottolineature.
Per l’antico ebreo la parola non era solo suono, ma forza operante e benefica. Basta rammentare che attraverso la sua parola Dio creò il mondo e che dalla sua parola sgorgò costantemente “una cosa buona” (vedi il racconto della creazione nella Genesi). Tutto quello che Dio disse - e al tempo stesso fece, perché nella cultura ebraica “dire” e “fare” erano la stessa cosa, mentre per noi “tra il dire e il fare vi è di mezzo il mare”, quanto mutano tempi e culture - era cosa buona. Dietro la parola, infatti, sta l’anima di chi l’ha emessa. Una parola dietro cui non sta alcuna forza spirituale, è un puro suono (2 Re 18,20), ma se l’anima è potente anche la parola è rivestita di potenza (Qo 8,4; 1 Cr 21,4).
La forza della parola, quindi, inizia con Dio che crea. Prosegue con Dio che manda la sua Parola - Cristo - per salvare l’umanità. Molto significativa una frase della liturgia latina che il celebrante recitava sulle ampolline del vino e dell’acqua: Domine, qui mirabiliter conditisti et mirabilius reformasti… O Signore, che in modo mirabile hai creato e in modo ancor più mirabile hai redento… e sempre con la tua parola!
Ora chiediamoci: come usiamo noi il preziosissimo senso della parola? Come lo usò Dio, che creò e si avvide che tutto era “cosa buona”, come lo usò Cristo, che sempre rese grazie al Padre, sempre ebbe compassione, sempre perdonò e invocò perdono perfino per i suoi carnefici, come lo usarono i nostri santi, dai quali mai uscì una parola di ribellione, di superbia, di semplice oziosità? Oppure talvolta - Dio non voglia - usiamo la parola per mentire, per calunniare, per assecondare l’invidia, per destreggiarci alla meno peggio?
Insegna San Giacomo, nella sua lettera, che la lingua, piccolo membro, può incendiare una grande foresta (3,5); l’antico libro del Siracide avverte che il banco di prova dell’uomo è la sua conversazione, cioè la sua parola (27,5). Da come io parlo mi faccio conoscere. Da come io uso la parola verrò giudicato. Certo, il giudizio sarà sulla carità, non solo su quella delle opere, anche su quella della parola. Un esempio scritturistico e uno letterario, significativi.
Come mai Dante - è questo il settimo centenario della nascita - mette all’inferno quel sommo sacerdote che manifestò l’opinione che Cristo dovesse essere ucciso per il bene comune (Gv 11,49-50)? Per l’ipocrisia manifestata nell’esprimere in forma sentenziosa e generica, non sicuramente interpretabile, il suo parere, credendo in tal modo di sottrarsi ad ogni responsabilità. Che uso fece dunque quell’uomo della parola? Il diavolo, dice ancora Dante per bocca di un dannato, è “padre di menzogna” (Inf XXIII, 144). Verità semplicissima: il diavolo è all’origine di ogni menzogna. Mentire poco, purtroppo, non è possibile. Colui che mente, mente tutta la menzogna; mentire è davvero il volto stesso del diavolo. Questo è il principio della distruzione operata con la parola.
Un altro personaggio storico disse una bugia: San Massimiliano Kolbe (1894-1941). Dinnanzi al comandante nazista che per rappresaglia aveva scelto alcuni prigionieri a morire di fame, egli si offrì al posto di un altro, per salvarlo, perché quell’uomo era giovane, egli invece “era vecchio”: aveva quarantasette anni! Vecchio? Che bugia! Possa questa bugia, ora che egli ha raggiunto i suoi fratelli, gli angeli, la sua Madre, l’Immacolata, e la Trinità che egli ogni mattina adorava con il volto a terra, coprire tutte le nostre menzogne e guadagnare a questo mondo una concreta luce di speranza.
di Franco Careglio