Quella cultura che ‘spaccia’ libertà E trascina verso la non-verità
- Creato Domenica, 20 Novembre 2016 09:00
- 20 Novembre 2016
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Una letteratura spirituale antica presenta i sensi come realtà che veicolano il male. I sensi tendono a camuffare la verità, a contrabbandare il vizio come virtù, insomma ad ingannare.
Questo modo di sentire, risalente agli antichi scrittori ecclesiastici latini e orientali, venne suffragato da una letteratura e da una pittura che produssero - la seconda soprattutto - opere di superiore bellezza, sempre però evidenziando l’inganno dei sensi. San Benedetto che si rotola tra le spine, San Francesco che fa altrettanto nella neve, i dipinti di potenza straordinaria del Mantegna, del Lotto, dello stesso Tiziano, le sculture di Donatello, del Canova e di altri che presentano un San Girolamo in atto di percuotersi con un sasso, una Maddalena emaciata, una Caterina cadente per i flagelli che si infligge, confermano questa posizione: i sensi portano al male e l’unico mezzo per redimersi è la sofferenza.
Ma se la dura legge venne con Mosè, la grazia e la verità vennero con Cristo (Gv 1,17). Egli, Parola di Dio, sostiene e indica la via del bene attraverso l’uso corretto dei sensi, che perdono con Lui quella modalità negativa per acquisirne una che li legittima e li redime. Gesù parla ai malati e li guarisce; tocca il cieco e gli ridona la vista; prende cibo con i discepoli ed esalta la gioia della convivialità; prende parte ad una festa di nozze e provvede alla mancanza di vino, che sicuramente assapora Egli stesso. Ecco come i sensi divengono con Cristo mezzi ineguagliabili per essere Egli via, verità e vita (Gv14,6) e per consentire ai suoi fedeli di esserlo a loro volta nella storia.
Da questo può comprendersi l’importanza dei sensi e in particolare il “doppio senso” del mezzo di comunicazione per eccellenza: la parola, tanto detta quanto ascoltata. La vita quotidiana, che è relazione con gli altri, è basata sul dialogo. Fondamento di questo deve essere l’onestà intellettuale, la retta intenzione che non comunica se non il vero.
Ma se la retta intenzione è oscurata dall’interesse a far apparire diverso ciò che è in realtà, allora la parola viene formulata e accolta nello stravolgimento completo di tale realtà.
Si giunge così ad una vera profanazione della parola, di questo dono stupendo che il Signore Dio per primo ha usato quando nella creazione “disse”. Per questo la parola
deve ognora essere espressione di benevolenza, di verità, di misericordia. Ciò vale per tutti: credenti e non credenti, umili e potenti.
Parola come benevolenza: chi parla, lo faccia con parole di Dio ((1Pt 4,11). Dio è verità e amore. L’uso della parola deve rifarsi a tale essenza. Non basta per i potenti dire “non vi lasceremo soli” ai devastati dal terremoto, ma occorre che in verità all’affermazione seguano i fatti. In caso contrario si ingenera un processo di sfiducia e di distruzione forse peggiore di quello della catastrofe.
Parola come verità. Non vi è sistema migliore per realizzare obiettivi aziendali o personali o politici di quello della parola falsificata. I mezzi di comunicazione sono oggi non solo alla portata di chiunque, piccoli o grandi, dotti o semplici, ma riescono ad ingannare totalmente i sensi, quelli evidenti (chiamiamoli così, come vista, udito, discorsi ecc.) come quelli reconditi, come l’intelligenza e il buon gusto. Di qui l’uso attento e soprattutto parco della televisione, della radio, di internet. Non dovrebbe essere ignoto a nessuno che la parola di questi mezzi è oggi quella che induce, incanala e non di rado inganna facendo sfociare l’ascoltatore nella non-verità. Chi ascolta diventa ciò che ascolta. Si consideri il linguaggio.
Le parole più scadenti e più inquinanti (i materiali tossici liberati nelle acque inquinano l’ambiente, le parole sconvenienti - o scurrili - inquinano lo spirito e l’intelligenza) sporcano chi le pronuncia, ingannano chi le ode, distruggono la cultura con un povertà di termini che è miseria sconcia.
Vi è una cultura oggi che si spaccia per libertà e trascina nell’estuario nella non-verità.
Si viene immersi, molte volte senza possibilità di uscita, nel mare del sovvertimento della creazione. Appare catastrofico quello che qui si dice? Basta attendere con pazienza e si verificherà, ripetendo una frase storica in uso da secoli: “non me ne ero accorto”. La ripeterono anche coloro che avrebbero dovuto calare scialuppe di salvataggio in una società che nel XVIII secolo stava colando a picco e che poi naufragò nel sangue della Rivoluzione francese. Anche noi diremo - Dio non lo permetta! - “non ce ne eravamo accorti” quando la famiglia sarà naufragata (non si ascolti l’Amoris laetitia, internet è meglio), quando la natura cederà il passo alla manipolazione, quando un “Grande Fratello” salirà alla vetta dell’audience, quando l’eutanasia camuffata da pietà avrà la meglio sulla vita di quanti Luigi Orione chiamava “i suoi gioielli”.
Parola come misericordia. Non di rado si sente parlare di pena di morte. Perché? Perché la parola che si ascolta sull’autobus, al bar, nei centri commerciali, in attesa prima di entrare dal medico va sempre più legittimando la prevaricazione. Se l’altro guida infischiandosene dei segnali stradali e delle multe, io devo fare altrettanto. Se l’altro abbandona il coniuge infischiandosene di persone e di anime distrutte, io devo superarlo. Di qui viene l’auspicio di una pena che, sfogliando un libro di storia, ci fa inorridire. Cerchiamo di inorridirci anche per l’uso improprio delle parole. Usare rettamente questo dono vuol dire cooperare alla liberazione degli uomini da tutte le forme di schiavitù.
di Franco Careglio