LIBERARE LA PERSONA DALLA SOLITUDINE
- Categoria: EDITORIALE
- 20 Ottobre 2017
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La solitudine, prima di una condizione, è un atteggiamento, anzi, un sentimento: non dipende dal numero delle persone che ci sono accanto, ma dalla disponibilità ad incrociare lo sguardo del nostro vicino.
Non si sconfigge la solitudine accettando l’abbraccio della folla, ma facendosi carico delle attese, delle speranze, dei desideri, delle sofferenze delle persone che ci sono accanto.
In una società distratta ed egoista la persona ha imparato a raccogliersi come farebbe il baco da seta nel suo bozzolo. E così, un po’ alla volta, si tagliano i ponti, e si rimane in quella condizione nella quale il silenzio è più forte del chiacchiericcio, o almeno, più gradito ed apprezzato.
Quando poi i conflitti, gli scontri sociali, le insicurezze economiche e le angosce del terrore riempiono di paura i giorni e le ore, diventa facile cedere alla tentazione della fuga, alla scelta prudenziale di “farsi i fatti propri”, senza curarsi di nulla e di nessuno.
È ben per questo che molti sono soli, per scelta personale: vagano da un’esperienza all’altra, e molto spesso da una sconfitta ad un’altra, senza trovare tregua, senza coltivare null’altro che rancore: l’amarezza per quanto perduto, la frustrazione per quanto si è lasciato correre, la delusione per le opportunità cercate e non trovate o per i desideri che non son mai diventati progetti.
C’è intorno a noi una folla di solitari che ruminano pensieri carichi di sofferenza e di disagio, biascicano parole che tornano e ritornano come ritornelli ossessivi di discorsi che servono soltanto a declinare il disgusto, ad un passo dalla resa, ripiegati su sé stessi.
Questa ampia area di disagio è un problema per tutti noi, sia perché ci tocca da vicino e ci coinvolge, sia perché nasconde una inespressa domanda d’aiuto a cui è giusto – anzi, è doveroso – dare qualche risposta.
Fra le tante prigionie che trattengono la persona contemporanea, il sentimento della solitudine è da considerare con la dovuta attenzione ed è da valutare come motivo di impegno personale e sociale. La città nella quale viviamo ha bisogno di coinvolgere tutti e di chiamare tutti a gesti di condivisione e di lavoro partecipato. È facile scusarsi dicendo che sono gli altri che non ci stanno: la partecipazione si ottiene partecipando, ossia mostrando, suggerendo, camminando insieme, mettendosi a disposizione e sapendo chiedere aiuto a favore dei più deboli.
Per sentire le parole del mondo basta andare lungo le strade della città; per incontrare il volto degli uomini basta fermarsi accanto ad un focolare, o provare a camminare affianco a chi arranca, vicino a chi mostra un passo stanco e pesante. Ma per ascoltare la propria anima e sentire le sue confidenze è meglio fermarsi ai margini di un deserto. Non per isolarsi dal mondo, ma per trovare la voce del mondo nel profondo del proprio animo.
Questo è l’altro volto della solitudine, che non è isolamento e non è mai silenzio. Anzi, è il momento in cui ciascuno parla con sé stesso, per mettersi alla prova e per capire come muoversi, dove andare, come individuare le vie del dialogo e della partecipazione.
Nel silenzio della meditazione le parole fluiscono cariche di propositi e piene di riferimenti concreti. Non si è soli, ma si sta insieme ai mille volti che la coscienza ci mostra e il cuore ci raccomanda. E se in queste occasioni il dialogo è davvero ricco e fluente, allora diventa sorgente di stimoli partecipativi, e motivo inesauribile di attenzione al sociale ai bisogni del mondo.
Nicola Paparella